Psicologia: ecco qualcosa da sapere sulla nostra mente
Psicologia, questa sconosciuta. O forse è il caso di dire “psiche, questa sconosciuta”?
A volte mi trovo a pensare che alcune persone sottovalutino gli studi psicologici, a causa di una scarsa informazione sulle dinamiche profonde della nostra mente.
Non conoscendo bene i meccanismi che fanno girare le rotelle interiori, tendono a dare poca importanza a una disciplina che le studi, le spieghi e cerchi di sistemarle quando vanno fuori posto.
Vi sarà forse capitato di sentir dire frasi infelici tipo “Dallo psicologo vanno i matti” o “Non capisco a cosa serva la psicologia”.
Questa diffidenza nasce da una colossale lacuna.
Durante i nostri percorsi di educazione scolastica nessuno, a meno che non ci si iscriva alla facoltà di Psicologia o a una scuola superiore che affronta la materia, si prende la briga di spiegarci un concetto semplice.
Ciò che chiamiamo pensiero non è aria fritta.
Ciò che chiamiamo pensiero è qualcosa che si traduce in reazioni fisiologiche del nostro organismo, reazioni che possono avere effetti positivi o negativi.
Le parole che diciamo o ascoltiamo, le nostre riflessioni, la musica, i film, i libri che scegliamo, i nostri rapporti con gli altri, tutto questo si può tradurre, ad esempio, in variazioni della frequenza cardiaca o nel rilascio di determinati ormoni.
Per comprendere come ciò avvenga, basta partire da una constatazione piuttosto semplice: il cervello, la nostra “centrale operativa”, non è qualcosa di immutabile.
Innanzitutto, cerchiamo di capire come funziona.
Proverò a riassumerlo in una maniera talmente basilare, che qualche neurologo potrebbe scrivermi mail di protesta.
Un computer biologico
Il cervello è come un computer biologico, con una proprietà singolare: i suoi circuiti si possono modificare attraverso l’esperienza.
Il paragone con un computer non è casuale: a determinare le nostre percezioni, a permetterci di parlare, pensare, muoverci e comprendere il mondo, sono impulsi elettrici.

I neuroni formano vere e proprie reti
Proprio così: il sofisticatissimo elaboratore che abbiamo in testa è formato da cellule, i noti neuroni, che comunicano inviandosi impulsi elettrici.
L’evoluzione nel tempo ha raffinato talmente il computer-cervello, da dividerlo in aree dedicate alle varie funzioni. Abbiamo così “sezioni” specializzate nel linguaggio, nell’orientamento spaziale, nel controllo emotivo e via dicendo.
Su questa suddivisione potrebbero essere scritti ancora chissà quanti libri, quindi non è il caso che provi a comprimere il tutto in un post.
Basta considerare, per ora, il dato di cui parlavo prima: il cervello funziona grazie alla trasmissione di impulsi elettrici da neurone a neurone.
(Aperta parentesi: se creassimo un robot capace di modificare i propri circuiti con l’esperienza e avere una coscienza di sé, si porrebbe un dilemma etico enorme: sarebbe una persona? Chiusa parentesi).
Ora consideriamo che la nostra testa, anche se piuttosto grande in proporzione al corpo rispetto a quella di altri animali, non è enorme.
Siamo poi una specie discretamente longeva.
Come facciamo allora a contenere nel cervello la mole enorme di dati che accumuliamo nella vita? Intendo “dati” nel senso più ampio: nomi e volti di persone, abilità che apprendiamo (dalle abilità fisiche a quelle “intellettuali” e artistiche), nomi di luoghi, di animali…
Il cervello sceglie e cambia

Ci sentiamo “arrugginiti” in un ambito in cui eccellevamo? Il cervello non ha più ricevuto il giusto allenamento…
La risposta è semplice: il cervello fa piazza pulita di ciò che non serve più.
O meglio: fa piazza pulita di quello che gli facciamo credere che non serva più.
E come arriviamo a fargli credere questa cosa? Smettendo di esercitare certe funzioni, di svolgere certe attività, di voler ricordare alcune cose.
Ecco cosa è accaduto, quando riprendiamo un hobby come il disegno o il tennis dopo anni di inattività, scoprendoci meno bravi di un tempo e dicendo “ho perso l’allenamento”: il cervello ha “penalizzato” alcuni circuiti di neuroni, tenuti anni addietro in attività continuativa.
Magari abbiamo smesso con il tennis, per dedicare più tempo a una professione basata sulla scrittura al pc. Il cervello, con gli anni, ha lasciato indebolire quelle sinapsi, cioè collegamenti tra neuroni, essenziali per giocare a tennis al top, che si erano create o rafforzate con l’allenamento. Alcuni neuroni sono letteralmente morti per il “disuso”.
Il nostro ipertecnologico elaboratore nella testa avrà, invece, rafforzato i circuiti di neuroni che ci fanno scrivere rapidamente sulla tastiera minimizzando gli errori. Così, a fronte di una disastrosa performance tennistica, siamo diventati dei “digitatori” velocissimi.
Quindi, come alcuni neuroni periscono per l’inattività o subiscono un indebolimento delle connessioni, altri possono vedere le loro connessioni rafforzarsi, se iniziamo a utilizzarli più intensamente e con continuità.
Si possono addirittura formare nuove connessioni tra neuroni.
Ora, l’articolo inizialmente parlava di psicologia.
Vi potreste legittimamente chiedere cosa c’entri questa storia delle aree cerebrali per giocare a tennis con la psicologia.
A parte il fatto che essere stati bravi tennisti in passato e scoprirsi all’improvviso schiappe può provocare un contraccolpo psicologico notevole, voglio arrivare a dire qualcos’altro.
Teniamo presente che i circuiti cerebrali di cui ho parlato finora “comandano” vere e proprie azioni del nostro corpo (negli esempi fatti prima, controllano i muscoli durante determinate attività).
Quelle aree del “computer biologico” dedicate alle emozioni

Anche la capacità di controllare o meno l’ira dipende dal modo in cui le vicende della vita hanno modellato alcuni circuiti neurali
Il cervello, così come ha aree dedicate al movimento, ha anche aree responsabili delle risposte emotive, della sensazione di paura, dell’autocontrollo.
Gli eventi della nostra vita possono arrivare a cambiare concretamente il nostro cervello, determinando nel profondo anche il funzionamento (o il malfunzionamento) di queste ultime aree.
Negli esempi di prima parlavo di circuiti per lo più “motori”, che comandano i muscoli. Ebbene, le aree dedicate alle emozioni “comandano” invece le reazioni fisiologiche legate all’emotività. Come? Stimolando ad esempio il rilascio di determinati ormoni, che ci mettono in una condizione più o meno di “allerta” in certe circostanze.
Questa nostra reattività agli eventi dipende da come le aree cerebrali “emotive” sono state plasmate durante il nostro percorso esistenziale.
Proprio così: come allenarsi per tanto tempo nel tennis potenzia determinati circuiti cerebrali, legati al movimento, allo stesso modo potremmo aver “addestrato” le aree cerebrali del controllo emotivo.
O potremmo, al contrario, averle “abituate male”, dando per anni sfogo incontrollato a stati d’animo di forte stress, magari esasperandoli.
Ecco a cosa mi riferivo quando, all’inizio del post, dicevo che anche una conversazione o una riflessione si traducono in reazioni fisiologiche.
Immaginiamo di esserci trovati per un anno in una situazione stressante: ad esempio, un ambiente di lavoro ostile.
Giorno dopo giorno, il cervello avrà associato alla vista di certi colleghi o del principale (la cui immagine viene riconosciuta dalle aree visive) reazioni di disagio o, addirittura, allerta (originate dalle aree cerebrali che, semplificando, ho chiamato “emotive”).
Immaginiamo che, da parte nostra, non sia avvenuto alcuno sforzo di razionalizzare e controllare il malessere; altrimenti, pensate che elaboratore sofisticato abbiamo in testa, si sarebbe attivata un’area del cervello deputata all’autocontrollo.
Entrando in ufficio, ci saremo ritrovati giorno dopo giorno un alto tasso di cortisolo (ormone dello stress) nel sangue, senza un minimo tentativo di regolare l’emotività. La conseguenza? Un malessere quasi ingestibile, fortissimo, a lavoro.
Perché accade questo?
Perché per un lungo periodo abbiamo lasciato credere al cervello che andava bene così.
Che a certe situazioni si doveva reagire con rabbia, disagio, forse addirittura paura. Così si cementano, nel tempo, tante forme di fobia, di ansia, tante relazioni interpersonali basate su dinamiche malsane.
Allora, siamo fregati in questi casi?
No.
Prendere le redini della psiche
Il cervello può sempre apprendere un altro modo di percepire, di reagire. Di vivere.
Serve però la pratica, magari con la guida di un esperto come lo psicologo.
Un professionista che spieghi come comportarsi, se si vogliono rafforzare alcune connessioni cerebrali e indebolirne altre associate a cattive abitudini.
Come si fa, in concreto, a rafforzarle o indebolirle?
Beh, credo di aver scritto fin troppo per un solo post. Tornerò presto sull’argomento.
Grazie per l’attenzione e alla prossima, cari lettori!
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